Gli esseri umani sono soggetti a numerosi bias sistematici nel giudizio, la maggior parte dei quali sono dovuti a processi inconsci. La mancanza di accesso consapevole ai processi che formano il giudizio implica che le persone siano spesso inconsapevoli dei loro stessi bias anche quando riescono a riconoscere i medesimi errori di giudizio negli altri.
Il Blind spot bias è la tendenza, nel valutare giudizi e opinioni, a percepire e a considerare se stessi e i propri ragionamenti come più obiettivi e razionali rispetto a quelli degli altri.
È molto più facile cioè accorgersi dell’esistenza di distorsioni ed errori nel ragionamento altrui piuttosto che nel proprio. La nostra visione del mondo tende infatti ad apparirci come oggettiva, come “la realtà dei fatti” e non soggetta ai bias che vediamo invece agire negli altri. Per questo il Blind-spot bias può essere considerato “il bias di tutti i bias”, il più insidioso: collocandosi infatti a un livello “meta”, ci rende ciechi e non ci permette di “vedere” i nostri stessi errori di giudizio.
Come possiamo “vedere” la nostra zona cieca?
Considerando di essere, come tutti, soggetti a possibili distorsioni del giudizio
Confrontando la nostra visione della realtà con quella degli altri
Mantenendo una posizione aperta di critica e di dubbio
Ponendosi delle domande. Ad esempio:
Quali altri punti di vista potrebbero esserci su questa questione?
Quali elementi potrei non aver considerato?
Se dovessi fare “l’avvocato del diavolo”, che critiche muoverei alla valutazione che sto facendo?
bibliografia
Tversky A., Kahneman D. (1974). Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases, in Science, vol. 185, n. 4157, pp. 1124–1131
Pronin E., Lin D.Y., Ross L. (2002). The Bias Blind Spot: Perceptions of Bias in Self Versus Others. Personality and Social Psychology Bulletin. 28 (3): 369–381
L’effetto Dunning-Kruger è una distorsione cognitiva a causa della quale individui poco esperti in un campo tendono a sopravvalutare le proprie abilità, autovalutandosi, a torto, esperti in quel campo mentre, per contro, persone davvero competenti tendono a sottovalutare la propria competenza.
Chi non è esperto commette un errore di valutazione sul proprio conto: sopravvaluta se stesso, non riconoscendo i propri limiti e sottovaluta l’effettiva capacità degli altri proprio perché non ha abbastanza conoscenze per giudicare con precisione chi le possiede e chi no.
D’altra parte, chi è altamente competente è portato a vedere negli altri un grado di conoscenza equivalente al proprio: sopravvaluta gli altri e sottostima se stesso ritenendo ciò che risulta semplice per lui in virtù della propria conoscenza, semplice anche per gli altri.
Nei loro studi, i ricercatori della Cornell University David Dunning e Justin Kruger hanno rappresentato il fenomeno con una curva tipica: sull’asse delle ascisse la conoscenza in un campo, su quella delle ordinate la percezione di quanto conosciuto.
I risultati mostrano che quando si inizia a conoscere una materia si ritiene di sapere tutto, mentre più ci si addentra in un argomento, più si diventa consapevoli di quello che manca per conoscerlo davvero bene.
Come proteggersi da questo rischio?
Approfondire l’apprendimento quando ci si sente “esperti”
Essere consapevoli dell’esistenza degli errori di valutazione e della possibilità di commetterli
Chiedere feedback a persone di comprovata esperienza
Gli esseri umani sono soggetti a numerosi bias sistematici nel giudizio (Tversky and Kahneman, 1974), la maggior parte dei quali dovuti a processi inconsci. I bias e le euristiche sono scorciatoie di pensiero che hanno il vantaggio di semplificare la complessità della realtà e i processi decisionali, garantendo un utile risparmio di energia psichica attraverso queste strategie inconsapevoli.
Il bias di conferma (confirmatory bias) è un errore cognitivo che porta, nel processo di acquisizione di nuove informazioni, a selezionare e ad attribuire maggiore senso e credibilità a quelle che confermano l’ipotesi di partenza e a ignorare o sminuire quelle che la contraddicono: un pregiudizio che si manifesta nella raccolta dei dati, come una cecità parziale che impedisce di osservare i fenomeni da più punti di vista.
Se, da un lato, tale meccanismo di semplificazione può alleggerire i processi di ragionamento e consentire all’individuo di preservare la propria identità personale garantendogli coerenza, dall’altro, l’esclusivo riferimento alle prospettive che alimentano il suo punto di vista preesistente può allo stesso tempo precludergli la possibilità di cambiare idea.
Come è possibile proteggersi da questo rischio?
Considerando e mantenendo la consapevolezza di essere potenzialmente soggetti, come tutti, a questo tipo di distorsioni quando giudichiamo qualcosa e ci formiamo un’opinione/abbiamo una convinzione a riguardo
Coltivando il dubbio e il senso critico
Ricercando attivamente le condizioni per le quali la nostra tesi non è valida piuttosto che le prove a supporto
“Tendiamo a focalizzarci sulla ‘risposta giusta’ piuttosto che sulla scoperta della domanda giusta” (Vogt et alii, 2003:2)
Perchè tendiamo a dare precedenza e a sovrastimare il valore delle risposte rispetto a quello delle domande? Eppure molte delle più grandi scoperte sono iniziate con una bella domanda!
Possiamo fare alcune ipotesi.
La nostra cultura è orientata alla competizione e alla performance. Di fronte a un problema siamo educati a dirigere il nostro sforzo attentivo e di concentrazione sulla ricerca rapida di una soluzione. La risposta socialmente premiata e personalmente più rassicurante è quella semplice, immediata e che non lascia spazio a dubbi e a incertezze. Dentro quell’area grigia del ‘non sapere’ spesso non ci sentiamo comodi perché avvertiamo una forte minaccia: quello che abbiamo imparato e che ci viene ricordato continuamente è che dobbiamo uscire il più velocemente possibile da quella valle sconosciuta e senza certezze per non farvi più ritorno.
All’interno di questa cornice di contesto ci sono poi diversi gradi di sensibilità individuale nel mostrare questa tendenza. La maggiore o minore propensione a tollerare un certo grado di incertezza dipende infatti da come si combinano tra loro gli ingredienti personologici, familiari, situazionali, legati al ruolo (ci si aspetta di solito ad esempio che un manager o un esperto abbia le risposte), può cambiare nel tempo e in relazione agli eventi, essere più evidente in alcuni contesti e meno o niente affatto in altri.
Come ci si muove nell’incertezza? Che strumenti abbiamo?
Una buona domanda può essere una torcia che illumina una stanza buia, una chiave che apre una porta (a volte ne servono diverse prima che si apra!), un sottomarino che va in profondità, un ponte tra i pensieri e tra le persone, tra ciò che conosciamo già e quello che non conosciamo ancora.
Le giuste domande possono motivare, ispirare nuove idee e cambiare la percezione di un problema o di una situazione. Essere consapevoli del tipo di domande che si pongono e dei loro effetti consente di scegliere lo strumento giusto, al momento giusto.
“Se avessi solo un’ora per risolvere un problema, e la mia stessa vita dipendesse dalla soluzione, passerei 55 minuti a capire quale sia la domanda giusta da porsi, perchè una volta scoperta questa potrei risolvere il problema in meno di 5 minuti”
Gli studiosi della ‘Pragmatica della comunicazione’ ci hanno insegnato che ogni atto comunicativo contiene sempre due aspetti: un livello INFORMATIVO, relativo a ciò che diciamo, all’informazione, al contenuto e uno di RELAZIONE: come lo diciamo, con il tono di voce, l’intonazione, l’espressione del viso e del corpo,… Il modo in cui diciamo qualcosa comunica all’altro come interpretare il nostro messaggio: è una comunicazione sulla comunicazione (una ‘metacomunicazione’).
È la forma a dare senso e significato al contenuto: posso avere diversi tipi di liquido ma se li metto nello stesso contenitore, tutti assumono la stessa forma. L’effetto emotivo – del contenitore – è di gran lunga prevalente in termini comunicativi rispetto al contenuto. La stessa parola, pronunciata con un tono e un’espressione diversa, assume significati completamente diversi…
Quello che dico potrà dunque anche essere ‘ragionevole’ ma il modo in cui verrà accolto dall’altra persona – la reazione emotiva che susciterà in lei – sarà coerente con la forma che avrò adottato per comunicarlo. Ragione ed emozione non vanno sempre d’accordo e di solito è la ragione a soccombere.
Alcune modalità comunicative – non nella loro singola espressione episodica ma se insistenti e ripetute nel tempo – risultano tossiche per la relazione di coppia, finendo per produrre effetti non desiderati e fallimentari, spesso proprio quello opposto rispetto all’intenzione iniziale di risolvere un problema o di migliorare un aspetto della relazione.
Eccone alcune.
1) PUNTUALIZZARE Come succede spesso, «è la dose che fa il veleno»: cose buone producono effetti cattivi semplicemente a causa del sovradosaggio, proprio come un farmaco somministrato in dosi eccessive si trasforma in veleno. Nella giusta quantità, puntualizzare i fatti è una modalità di interazione che consente di evitare equivoci o incomprensioni e di sapere cosa davvero sente e pensa l’altro. Ma se diventa ridondante, anche se quanto precisato viene razionalmente riconosciuto come ragionevole dal/dalla partner (sul piano del contenuto), può produrre, sul piano della relazione, reazioni emotive di fastidio e di irritazione e un azzeramento del desiderio. Sottoporre di continuo ad analisi razionale lo scambio emotivo-affettivo rischia infatti di ridurlo a qualcosa di freddo e distante e di portare nella relazione affettiva un metodo comunicativo proprio del mondo scientifico, basato sui fatti e non sugli aspetti di calore e di coinvolgimento che ne costituiscono il fondamento.
2) RECRIMINARE Sottoporre continuamente il/la partner a un processo nel quale vengono sottolineate le sue colpe introduce un’atmosfera relazionale che ricorda più la prassi giuridica che una relazione sentimentale. Per quanto possa nascere da un’intenzione legittima di chiarificazione, tende a produrre nell’accusato/a un sentimento sgradevole contro cui s’infrangeranno le nostre ragioni. Anche in questo caso, la forma della comunicazione e la sua modalità emotiva trasformeranno un messaggio potenzialmente corretto sul piano formale in un atto relazionale che sposta l’attenzione dai contenuti – sui quali si può sempre trovare un accordo – alla sfera emotiva. Il risultato più probabile non sarà l’accettazione delle nostre ragioni: il sentirsi inquisiti e condannati provocherà reazioni emotive di forte difesa. Il piano della disputa si sposterà dal livello logico – nel quale sono in questione soltanto dei semplici fatti – a un livello relazionale in cui le emozioni in gioco saranno probabilmente il rifiuto e la stizza. Si potrà anche essere convinti, a livello razionale, che il partner abbia ragione quando recrimina, ma al tempo stesso, ci si sentirà spinti sul piano irrazionale a reagire come se si fosse degli innocenti condannati iniquamente.
3) RINFACCIARE Quella che si rischia di stabilire nel tempo tra chi rinfaccia e chi subisce il rimprovero, è una forma di complementarità patogena della comunicazione che tende a strutturarsi come un vero e proprio copione interpersonale del tipo vittima/aguzzino, all’interno del quale colui/colei che rinfaccia si pone come vittima dell’altro (e da questa posizione tenta di indurre il/la partner a correggere i propri comportamenti) e chi viene colpevolizzato, trovandosi a questo punto nella posizione di aguzzino, tenderà a reagire rifiutando o aggredendo l’altr*, che in questo modo si sentirà ancora più vittima, scatenando un’ulteriore reazione di rifiuto o di aggressione e così via in una disastrosa escalation, un circolo vizioso dal quale, una volta innescato, potrà diventare difficile uscire.
4) PREDICARE Esaminare e criticare il comportamento dell’altr* sulla base di ciò che è giusto o ingiusto a livello morale provoca spesso un desiderio (anche in chi non ce l’avrebbe) di ribellione e di trasgressione delle regole morali poste a fondamento della predica.
5) “TE L’AVEVO DETTO!” Tra le forme meno articolate ma ugualmente in grado di provocare con grande probabilità di successo l’irritazione e l’allontanamento del partner poiché altamente evocative di sensazioni di irritazione e di squalifica ci sono le espressioni pronunciate in seguito a qualche accadimento spiacevole del tipo «Te l’avevo detto!»/ «Lo sapevo…»/ «Vedi? Non mi hai voluto dare ascolto». Alla rabbia e alla frustrazione di aver commesso un errore si somma infatti quella conseguente al fatto che l’altro faccia notare di averlo commesso per non avergli dato retta (ammesso che questo sia vero e non sia solo una sua impressione). Pronunciare queste frasi ci trasformerà probabilmente nel parafulmine della rabbia del/della nostro/a partner, al quale diamo (a volte generosamente) la possibilità di dirottare verso di noi tutta la carica che aveva contro di sé a causa del suo fallimento.
6) “LO FACCIO SOLO PER TE!” Dichiarare un sacrificio unidirezionale nei confronti dell’altro, se rappresenta una modalità ripetuta nel tempo, lo pone in una posizione di debito e di inferiorità, in quanto «bisognoso» dell’atto altruistico che, se non richiesto, può risultare irritante in quanto causa di una reazione emotiva ambivalente: dovrei ringraziarti per la generosità ma sono in difficoltà in quanto non è stata da me né desiderata né richiesta.
7) “LASCIA… FACCIO IO” Se, in maniera sistematica, ci si sostituisce all’altro nell’eseguire un compito, l’atto di cortesia e attenzione nei suoi confronti, che a un livello più superficiale di comportamento comunica una buona intenzione, finisce per veicolare, a un livello emotivo più profondo, un sotterraneo messaggio di squalifica che, se reiterato, può diventare nel tempo molto distruttivo: lascia fare a me perché tu non sei capace.
8) IL BIASIMO Il biasimo è una sequenza di comunicazione che spesso contiene una parte nella quale ci si complimenta con l’altro e una nella quale si afferma che però avrebbe potuto fare di meglio, di più o che ciò che ha fatto non è abbastanza («è bellissimo caro, ma come hai fatto a dimenticare che a me piacciono i girasoli?» / «va bene, però avresti potuto fare di meglio…»). Il biasimo è una modalità di comunicazione potenzialmente molto distruttiva.
Conoscere queste forme del comunicare serve a riconoscerle e a evitarne un uso inconsapevole che nel tempo può risultare dannoso per la salute della relazione.
Bibliografia P. Watzlawick, J.H. Beavin, Don D. Jackson “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, 1967. G. Nardone “Correggimi se sbaglio”, Ponte delle Grazie, 2005. P. Watzlawick “Change; principles of problem formation and problem resolution”, 1974
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