PSICOLOGIA DEL COMPLOTTO: nella mente di un cospirazionista
Per teoria cospirazionista si intende “la credenza che la causa di un evento derivi dal complotto di più attori onnipresenti e onnipotenti che lavorano insieme per perseguire un obiettivo spesso malevolo, illegale e segreto” (Bale, 2007; Mandick, 2007; Swami et al., 2014; Swami e Furnham, 2014). Più specificatamente, come afferma lo psicologo Christopher Thresher-Andrews, le teorie del complotto, rappresentando delle “alternative non comprovate e meno plausibili alla spiegazione tradizionale di un evento”, offrono una sorta di anti-tesi ai resoconti ufficiali.
Le ipotesi complottiste esercitano un certo fascino sulla maggior parte delle persone (sembra che circa il 50% della popolazione creda in qualche modo ad almeno una teoria del complotto) e molta attrazione per alcune altre. A volte si rivelano vere, altre possono contenere degli elementi di realtà o dei fatti realmente accaduti ma interpretati in maniera distorta o correlati tra loro in forma impropria da un punto di vista logico. Alcune riguardano temi che possono essere particolarmente distruttivi e pericolosi. Spesso il danno è predetto dal grado di rigidità (l’opposto della “flessibilità cognitiva”) di tali ideazioni. In questi casi, incoraggiando la discriminazione, la discordia sociale, la sfiducia e il disimpegno dalle regole e dal normale processo politico e talvolta addirittura la violenza (un esempio di questo tipo sono le teorie sulla dominazione economica globale ebraica che sono circolate in Europa per secoli e hanno costituito le fondamenta del movimento nazista nella Germania degli anni ’30), possono rappresentare un vero e proprio pericolo e una seria minaccia per la democrazia.
Perché accade questo? La risposta è complessa, poiché sono in gioco molteplici fattori e motivazioni (anche di natura storica, politica, sociologica, …). Ci concentreremo qui solo su alcune ipotesi di tipo psicologico, escludendo i casi che possono essere meglio spiegati da una psicopatologia di tipo paranoico o delirante.
Perché le persone sono – più o meno – attratte da questo tipo di spiegazioni? Perché può essere importante per qualcuno pensare che ci sia un complotto? Ci sono persone più propense a credervi rispetto ad altre? E perché?
Recentemente, il gruppo di ricerca condotto da Anni Sternisko, psicologa della New York University ha tentato proprio di indagare quali fattori psicologici possano rendere queste teorie così seducenti (Sternisko, A., Cichocka, A., & Van Bavel, J. J., 2020). Ricerche precedenti avevano già indicato che le persone sembrano motivate a credere nelle teorie cospirazioniste per tre principali motivi (Douglas, 2017).
1 . Il desiderio di comprendere e di dare senso
Cercare spiegazioni per gli eventi è un desiderio umano naturale. Ci chiediamo costantemente perché le cose vanno come vanno. Perché deve piovere proprio ogni volta che devo uscire? Perché mi ha risposto in quel modo? Perché non riesci a capire cosa sto cercando di dirti? E non ci limitiamo a fare domande, troviamo rapidamente anche risposte a queste domande: non necessariamente le risposte vere, ma piuttosto quelle che ci confortano o che si adattano alla nostra visione del mondo. Piove perché ho sempre sfortuna. Mi ha risposto così perché non sopporta quando non ottiene ciò che vuole. Non puoi capire cosa sto dicendo perché non stai ascoltando.
Pensiamo ai proverbi o agli stereotipi: li usiamo per avvolgere processi complessi in piccoli pacchetti belli e ordinati da tirare fuori all’occorrenza in modo che siano facili da comprendere, indipendentemente dal fatto che le informazioni contenute siano accurate o meno. In un certo senso anche le teorie del complotto si comportano così. Sebbene non contengano informazioni precise, forniscono una spiegazione semplice che dà un “senso” a molte cose, aiutando a trovare un significato “certo” in un mondo confuso e complesso che di certo ha molto poco.
L’idea che le persone pensino sempre razionalmente è un mito. Gli esseri umani sono soggetti a un’ampia varietà di bias di ragionamento e di giudizio: Bias di conferma, Effetto Dunning-Kruger e il modo con il quale siamo abituati a interagire con internet (l’accesso alle informazioni è associato spesso ad una falsa fiducia di conoscere “la verità”), sono alcuni dei motivi per i quali siamo spesso fiduciosi su convinzioni che potrebbero non essere vere.
2. Il desiderio di controllo e di sicurezza
Le teorie del complotto tendono a sorgere maggiormente durante periodi di sconvolgimento e di crisi sociale, quando le persone si sentono più minacciate e sono alla ricerca di risposte. Attraverso la “scoperta” della cospirazione, la sua condivisione con gli altri e la lotta contro di essa, l’individuo riprende il controllo su aspetti rispetto ai quali potrebbe sentirsi spaventato, angosciato, impotente o arrabbiato. Il desiderio che eventi tragici “abbiano senso” attraverso tali spiegazioni può fornirgli rassicurazione in luogo di un frustrante senso di impotenza (Newheiser, Farias & Tausch, 2011; van Prooijen, 2012). Dietro un processo di ideazione di questo tipo c’è spesso una persona molto spaventata: immaginare un nemico è un modo di fronteggiare l’ansia e di reagire ad eventi angoscianti e minacciosi quando, per vari motivi, non si riesce a rispondere in altri modi a tali emozioni o a tollerarle.
3. Il desiderio di mantenere un’immagine positiva di sé
La ricerca mostra che le persone che si sentono socialmente emarginate hanno maggiori probabilità di credere alle teorie del complotto. L’immagine di sé è legata al mondo relazionale. Quando quest’ultimo è molto povero o carente, si possono cercare mezzi alternativi per confermare la propria importanza. Scoprire un complotto restituisce una positiva sensazione di essere detentore di una conoscenza privilegiata. A volte le credenze si intrecciano in maniera così stretta con l’immagine di sé che rinunciare alle nostre convinzioni rappresenta una sorta di minaccia esistenziale alla nostra identità che sentiamo il bisogno di difendere (Pierre J, 2020). Può essere uno dei motivi per i quali il tentativo di convincere qualcuno a rinunciare alle sue teorie complottiste offrendogli una controevidenza può risultare tanto difficile: discutere in merito ai fatti con una persona che, attraverso quei fatti, sta difendendo il proprio senso di sicurezza e i suoi sentimenti positivi su di sé non è semplice (l’immagine di sé è più importante dei fatti!).
Secondo il gruppo di lavoro di Sternisko, non tutte le credenze sulla teoria del complotto possono però essere spiegate in questo modo. Ci sarebbero altre due importanti motivazioni che spingerebbero le persone a credervi così ciecamente.
- Per alcune persone queste teorie costituiscono un mezzo per rafforzare la propria identità sociale attraverso l’appartenenza ad un gruppo (come nel caso dei neonazisti e della fede in una cospirazione ebraica)
- Per altre rappresentano più un modo per affermare la propria “unicità” rispetto a una società “conformista”: per queste ultime cioè il fatto di disporre di una conoscenza che gli altri non hanno o di aver compreso cose che altri non hanno compreso o delle quali non si sono accorti li fa sentire speciali e in qualche modo superiori.
Per capire come funzionano queste due motivazioni – identità sociale e unicità -, i ricercatori hanno rivolto la loro attenzione alle caratteristiche delle teorie del complotto, in particolare al loro contenuto e alle loro qualità.
- Il contenuto consiste negli elementi narrativi unici della teoria (ci nascondono il fatto che la terra sia piatta, gli ebrei stanno cospirando per dominare l’economia mondiale, gli scienziati fabbricano dati sui cambiamenti climatici per raccogliere più fondi per la ricerca, e così via). È ciò che differenzia una teoria del complotto da un’altra.
- Esistono però anche una serie di qualità che accomunano tutte queste teorie, ossia le proprietà strutturali che rendono una particolare credenza una teoria del complotto: il fatto ad esempio di puntare a un gruppo specifico che starebbe cospirando per ingannare o danneggiare la società (il governo, gli ebrei, le case farmaceutiche, e così via) e di presupporre l’esistenza di un gruppo speciale di persone che sono a conoscenza della cospirazione e che stanno attivamente cercando di smascherarla.
Secondo i ricercatori, chi è spinto da motivi legati all’identità sociale e all’appartenenza (ad es. politica) sarebbe attirato da un particolare contenuto (allineato in questo caso con la sua ideologia politica; i neo-nazisti ad esempio si definiscono, almeno in parte, per la loro opposizione a una presunta cospirazione ebraica) e quindi possono anche non aderire ad altre teorie cospirazioniste (come la terra piatta o l’inganno dello sbarco sulla luna) perché irrilevanti per la loro identità/appartenenza sociale.
Al contrario, coloro che tentano più di dimostrare la propria “unicità” (nel tentativo in alcuni casi di compensare un sentimento di inferiorità) distinguendosi dalla società “conformista”, sono maggiormente attratti dagli elementi strutturali delle teorie del complotto, che permettono loro di sentirsi per l’appunto speciali: il contenuto effettivo di queste teorie è molto meno importante. Pertanto, le persone spinte da tale motivazione tenderanno a credere in molteplici teorie del complotto, a volte persino contraddittorie tra loro.
E adesso la domanda più complessa: esiste un modo per cambiare le convinzioni di qualcuno?
Così risponde Joseph M. Pierre, professore di scienze cliniche e della salute presso il Dipartimento di Psichiatria e Scienze Biocomportamentali della David Geffen School of Medicine dell’UCLA:
“Penso che ci siano tre strategie generali per la mitigazione. La prima è coltivare o riconquistare la fiducia nelle persone, soprattutto da parte delle istituzioni. La seconda è contrastare la disinformazione con una buona informazione o ammettere l’ambiguità quando è presente. Come società, dovremmo anche promuovere il pensiero analitico e una migliore educazione scientifica. La terza, e più controversa, è limitare la diffusione della disinformazione online”. Le “strategie di inoculazione” – avvertire le persone che potrebbero essere esposte a disinformazione – rappresentano uno dei modi più efficaci per combattere la fede nella disinformazione e nelle teorie del complotto. Come accennato, tuttavia, dobbiamo anche rendere tutti migliori consumatori di fonti informative, soprattutto online, promuovendo il pensiero analitico, insegnando alle persone come riconoscere la disinformazione e i pregiudizi e fornendo una migliore istruzione scientifica”.
I teorici della cospirazione affermano spesso di essere “scettici” e di pensare in modo critico (tipicamente mettendo in discussione le strutture di potere) ma senza offrire alternative reali (Swami e Furnham, 2014). Sebbene lo scetticismo rappresenti una importante disposizione verso il pensiero critico, per ragionare in tal senso è necessario che questo si accompagni sempre alla dimensione dell’apertura mentale (Dwyer et al., 2016) e cioè alla disponibilità a cambiare idea alla luce di nuove prove e all’apertura a critiche costruttive e a idee diverse.
Fonti
Ludden D. on Psychology Today https://www.psychologytoday.com/intl/blog/talking-apes/202007/why-are-conspiracy-theories-so-appealing
Dwyer C. on Psychology Today https://www.psychologytoday.com/us/blog/thoughts-thinking/202004/critically-thinking-about-conspiracy-theories-and-covid-19
Pierre J. On Psychology Today https://www.psychologytoday.com/us/blog/psych-unseen/202005/everything-you-wanted-know-about-conspiracy-theories
References
Bale, J. M. (2007). Political paranoia v. political realism: on distinguishing between bogus conspiracy theories and genuine conspiratorial politics. Patterns of Prejudice, 41, 45–60.
Douglas KM, Sutton RM, Callan MJ, et al. Someone is pulling the strings: Hypersensitive agency detection and belief in conspiracy theories. Thinking & Reasoning 2016; 22:57-77.
Douglas, K. M., Sutton, R. M., & Cichocka, A. (2017). The psychology of conspiracy theories. Current Directions in Psychological Science, 26, 538-542.
Dwyer, C. P. (2017). Critical thinking: Conceptual perspectives and practical guidelines. UK: Cambridge University Press
Kahneman, D. (2011). Thinking fast and slow. Penguin: Great Britain.
Lantian A, Muller D, Nurra C, et al. “I know things they don’t know!” The role of need for uniqueness in belief in conspiracy theories. Social Psychology 2017; 48:160-173.
Mandick, P. (2007). Shit happens. Episteme, 4, 205–18.
Newheiser, A.-K., Farias, M., and Tausch, N. (2011). The functioning nature of conspiracy beliefs: examining the underpinnings of beliefs in the Da Vinci Code conspiracy. Personality and Individual Differences, 51
Sternisko, A., Cichocka, A., & Van Bavel, J. J. (2020). The dark side of social movements: Social identity, non-conformity, and the lure of conspiracy theories. Current Opinion in Psychology, 35, 1-6.
Swami, V., Coles, R., Stieger, S., Pietschnig, J., Furnham, A., Rehim, S., and Voracek, M. (2011). Conspiracist ideation in Britain and Austria: evidence of a monological belief system and associations between individual psychological differences and real-world and fictitious conspiracy theories. British Journal of Psychology, 102, 443–63.
Swami, V., & Furnham, A. (2014). Political paranoia and conspiracy theories. Power, politics, and paranoia: Why people are suspicious of their leaders, 218.
Swami, V., Voracek, M., Stieger, S., Tran, U. S., & Furnham, A. (2014). Analytic thinking reduces belief in conspiracy theories. Cognition, 133(3), 572-585.
van Prooijen, J. W. (2012). Suspicions of injustice: The sense-making function of belief in conspiracy theories. In E. Kals & J. Maes (Eds.), Justice and conflict: Theoretical and empirical contributions (pp. 121–132). Berlin Heidelberg: Springer-Verlag.
van Prooijen, J. W., & Jostmann, N. B. (2013). Belief in conspiracy theories: The influence of uncertainty and perceived morality. European Journal of Social Psychology, 43(1), 109-115.