Autore: gaiascarfi

PSICOLOGIA DEL COMPLOTTO: nella mente di un cospirazionista

PSICOLOGIA DEL COMPLOTTO: nella mente di un cospirazionista

Per teoria cospirazionista si intende “la credenza che la causa di un evento derivi dal complotto di più attori onnipresenti e onnipotenti che lavorano insieme per perseguire un obiettivo spesso malevolo, illegale e segreto” (Bale, 2007; Mandick, 2007; Swami et al., 2014; Swami e Furnham, 2014). Più specificatamente, come afferma lo psicologo Christopher Thresher-Andrews, le teorie del complotto, rappresentando delle “alternative non comprovate e meno plausibili alla spiegazione tradizionale di un evento”, offrono una sorta di anti-tesi ai resoconti ufficiali.

Le ipotesi complottiste esercitano un certo fascino sulla maggior parte delle persone (sembra che circa il 50% della popolazione creda in qualche modo ad almeno una teoria del complotto) e molta attrazione per alcune altre. A volte si rivelano vere, altre possono contenere degli elementi di realtà o dei fatti realmente accaduti ma interpretati in maniera distorta o correlati tra loro in forma impropria da un punto di vista logico. Alcune riguardano temi che possono essere particolarmente distruttivi e pericolosi. Spesso il danno è predetto dal grado di rigidità (l’opposto della “flessibilità cognitiva”) di tali ideazioni. In questi casi, incoraggiando la discriminazione, la discordia sociale, la sfiducia e il disimpegno dalle regole e dal normale processo politico e talvolta addirittura la violenza (un esempio di questo tipo sono le teorie sulla dominazione economica globale ebraica che sono circolate in Europa per secoli e hanno costituito le fondamenta del movimento nazista nella Germania degli anni ’30), possono rappresentare un vero e proprio pericolo e una seria minaccia per la democrazia.

Perché accade questo? La risposta è complessa, poiché sono in gioco molteplici fattori e motivazioni (anche di natura storica, politica, sociologica, …). Ci concentreremo qui solo su alcune ipotesi di tipo psicologico, escludendo i casi che possono essere meglio spiegati da una psicopatologia di tipo paranoico o delirante.

Perché le persone sono – più o meno – attratte da questo tipo di spiegazioni? Perché può essere importante per qualcuno pensare che ci sia un complotto? Ci sono persone più propense a credervi rispetto ad altre? E perché?

Recentemente, il gruppo di ricerca condotto da Anni Sternisko, psicologa della New York University ha tentato proprio di indagare quali fattori psicologici possano rendere queste teorie così seducenti (Sternisko, A., Cichocka, A., & Van Bavel, J. J., 2020). Ricerche precedenti avevano già indicato che le persone sembrano motivate a credere nelle teorie cospirazioniste per tre principali motivi (Douglas, 2017).

1 . Il desiderio di comprendere e di dare senso

Cercare spiegazioni per gli eventi è un desiderio umano naturale. Ci chiediamo costantemente perché le cose vanno come vanno. Perché deve piovere proprio ogni volta che devo uscire? Perché mi ha risposto in quel modo? Perché non riesci a capire cosa sto cercando di dirti? E non ci limitiamo a fare domande, troviamo rapidamente anche risposte a queste domande: non necessariamente le risposte vere, ma piuttosto quelle che ci confortano o che si adattano alla nostra visione del mondo. Piove perché ho sempre sfortuna. Mi ha risposto così perché non sopporta quando non ottiene ciò che vuole. Non puoi capire cosa sto dicendo perché non stai ascoltando.

Pensiamo ai proverbi o agli stereotipi: li usiamo per avvolgere processi complessi in piccoli pacchetti belli e ordinati da tirare fuori all’occorrenza in modo che siano facili da comprendere, indipendentemente dal fatto che le informazioni contenute siano accurate o meno. In un certo senso anche le teorie del complotto si comportano così. Sebbene non contengano informazioni precise, forniscono una spiegazione semplice che dà un “senso” a molte cose, aiutando a trovare un significato “certo” in un mondo confuso e complesso che di certo ha molto poco.

L’idea che le persone pensino sempre razionalmente è un mito. Gli esseri umani sono soggetti a un’ampia varietà di bias di ragionamento e di giudizio: Bias di conferma, Effetto Dunning-Kruger e il modo con il quale siamo abituati a interagire con internet (l’accesso alle informazioni è associato spesso ad una falsa fiducia di conoscere “la verità”), sono alcuni dei motivi per i quali siamo spesso fiduciosi su convinzioni che potrebbero non essere vere.

2. Il desiderio di controllo e di sicurezza

Le teorie del complotto tendono a sorgere maggiormente durante periodi di sconvolgimento e di crisi sociale, quando le persone si sentono più minacciate e sono alla ricerca di risposte. Attraverso la “scoperta” della cospirazione, la sua condivisione con gli altri e la lotta contro di essa, l’individuo riprende il controllo su aspetti rispetto ai quali potrebbe sentirsi spaventato, angosciato, impotente o arrabbiato. Il desiderio che eventi tragici “abbiano senso” attraverso tali spiegazioni può fornirgli rassicurazione in luogo di un frustrante senso di impotenza (Newheiser, Farias & Tausch, 2011; van Prooijen, 2012). Dietro un processo di ideazione di questo tipo c’è spesso una persona molto spaventata: immaginare un nemico è un modo di fronteggiare l’ansia e di reagire ad eventi angoscianti e minacciosi quando, per vari motivi, non si riesce a rispondere in altri modi a tali emozioni o a tollerarle.

3. Il desiderio di mantenere un’immagine positiva di sé

La ricerca mostra che le persone che si sentono socialmente emarginate hanno maggiori probabilità di credere alle teorie del complotto. L’immagine di sé è legata al mondo relazionale. Quando quest’ultimo è molto povero o carente, si possono cercare mezzi alternativi per confermare la propria importanza. Scoprire un complotto restituisce una positiva sensazione di essere detentore di una conoscenza privilegiata. A volte le credenze si intrecciano in maniera così stretta con l’immagine di sé che rinunciare alle nostre convinzioni rappresenta una sorta di minaccia esistenziale alla nostra identità che sentiamo il bisogno di difendere (Pierre J, 2020). Può essere uno dei motivi per i quali il tentativo di convincere qualcuno a rinunciare alle sue teorie complottiste offrendogli una controevidenza può risultare tanto difficile: discutere in merito ai fatti con una persona che, attraverso quei fatti, sta difendendo il proprio senso di sicurezza e i suoi sentimenti positivi su di sé non è semplice (l’immagine di sé è più importante dei fatti!).

Secondo il gruppo di lavoro di Sternisko, non tutte le credenze sulla teoria del complotto possono però essere spiegate in questo modo. Ci sarebbero altre due importanti motivazioni che spingerebbero le persone a credervi così ciecamente.

  • Per alcune persone queste teorie costituiscono un mezzo per rafforzare la propria identità sociale attraverso l’appartenenza ad un gruppo (come nel caso dei neonazisti e della fede in una cospirazione ebraica)
  • Per altre rappresentano più un modo per affermare la propria “unicità” rispetto a una società “conformista”: per queste ultime cioè il fatto di disporre di una conoscenza che gli altri non hanno o di aver compreso cose che altri non hanno compreso o delle quali non si sono accorti li fa sentire speciali e in qualche modo superiori.

Per capire come funzionano queste due motivazioni – identità sociale e unicità -, i ricercatori hanno rivolto la loro attenzione alle caratteristiche delle teorie del complotto, in particolare al loro contenuto e alle loro qualità.

  • Il contenuto consiste negli elementi narrativi unici della teoria (ci nascondono il fatto che la terra sia piatta, gli ebrei stanno cospirando per dominare l’economia mondiale, gli scienziati fabbricano dati sui cambiamenti climatici per raccogliere più fondi per la ricerca, e così via). È ciò che differenzia una teoria del complotto da un’altra.
  • Esistono però anche una serie di qualità che accomunano tutte queste teorie, ossia le proprietà strutturali che rendono una particolare credenza una teoria del complotto: il fatto ad esempio di puntare a un gruppo specifico che starebbe cospirando per ingannare o danneggiare la società (il governo, gli ebrei, le case farmaceutiche, e così via) e di presupporre l’esistenza di un gruppo speciale di persone che sono a conoscenza della cospirazione e che stanno attivamente cercando di smascherarla.

Secondo i ricercatori, chi è spinto da motivi legati all’identità sociale e all’appartenenza (ad es. politica) sarebbe attirato da un particolare contenuto (allineato in questo caso con la sua ideologia politica; i neo-nazisti ad esempio si definiscono, almeno in parte, per la loro opposizione a una presunta cospirazione ebraica) e quindi possono anche non aderire ad altre teorie cospirazioniste (come la terra piatta o l’inganno dello sbarco sulla luna) perché irrilevanti per la loro identità/appartenenza sociale.

Al contrario, coloro che tentano più di dimostrare la propria “unicità” (nel tentativo in alcuni casi di compensare un sentimento di inferiorità) distinguendosi dalla società “conformista”, sono maggiormente attratti dagli elementi strutturali delle teorie del complotto, che permettono loro di sentirsi per l’appunto speciali: il contenuto effettivo di queste teorie è molto meno importante. Pertanto, le persone spinte da tale motivazione tenderanno a credere in molteplici teorie del complotto, a volte persino contraddittorie tra loro.

E adesso la domanda più complessa: esiste un modo per cambiare le convinzioni di qualcuno?

Così risponde Joseph M. Pierre, professore di scienze cliniche e della salute presso il Dipartimento di Psichiatria e Scienze Biocomportamentali della David Geffen School of Medicine dell’UCLA:

“Penso che ci siano tre strategie generali per la mitigazione. La prima è coltivare o riconquistare la fiducia nelle persone, soprattutto da parte delle istituzioni. La seconda è contrastare la disinformazione con una buona informazione o ammettere l’ambiguità quando è presente. Come società, dovremmo anche promuovere il pensiero analitico e una migliore educazione scientifica. La terza, e più controversa, è limitare la diffusione della disinformazione online”. Le “strategie di inoculazione” – avvertire le persone che potrebbero essere esposte a disinformazione – rappresentano uno dei modi più efficaci per combattere la fede nella disinformazione e nelle teorie del complotto. Come accennato, tuttavia, dobbiamo anche rendere tutti migliori consumatori di fonti informative, soprattutto online, promuovendo il pensiero analitico, insegnando alle persone come riconoscere la disinformazione e i pregiudizi e fornendo una migliore istruzione scientifica”.

I teorici della cospirazione affermano spesso di essere “scettici” e di pensare in modo critico (tipicamente mettendo in discussione le strutture di potere) ma senza offrire alternative reali (Swami e Furnham, 2014). Sebbene lo scetticismo rappresenti una importante disposizione verso il pensiero critico, per ragionare in tal senso è necessario che questo si accompagni sempre alla dimensione dell’apertura mentale (Dwyer et al., 2016) e cioè alla disponibilità a cambiare idea alla luce di nuove prove e all’apertura a critiche costruttive e a idee diverse.

Fonti

Ludden D. on Psychology Today https://www.psychologytoday.com/intl/blog/talking-apes/202007/why-are-conspiracy-theories-so-appealing

Dwyer C. on Psychology Today https://www.psychologytoday.com/us/blog/thoughts-thinking/202004/critically-thinking-about-conspiracy-theories-and-covid-19

Pierre J. On Psychology Today https://www.psychologytoday.com/us/blog/psych-unseen/202005/everything-you-wanted-know-about-conspiracy-theories

References

Bale, J. M. (2007). Political paranoia v. political realism: on distinguishing between bogus conspiracy theories and genuine conspiratorial politics. Patterns of Prejudice, 41, 45–60.

Douglas KM, Sutton RM, Callan MJ, et al. Someone is pulling the strings: Hypersensitive agency detection and belief in conspiracy theories. Thinking & Reasoning 2016; 22:57-77.

Douglas, K. M., Sutton, R. M., & Cichocka, A. (2017). The psychology of conspiracy theories. Current Directions in Psychological Science, 26, 538-542.

Dwyer, C. P. (2017). Critical thinking: Conceptual perspectives and practical guidelines. UK: Cambridge University Press

Kahneman, D. (2011). Thinking fast and slow. Penguin: Great Britain.

Lantian A, Muller D, Nurra C, et al. “I know things they don’t know!” The role of need for uniqueness in belief in conspiracy theories. Social Psychology 2017; 48:160-173.

Mandick, P. (2007). Shit happens. Episteme, 4, 205–18.

Newheiser, A.-K., Farias, M., and Tausch, N. (2011). The functioning nature of conspiracy beliefs: examining the underpinnings of beliefs in the Da Vinci Code conspiracy. Personality and Individual Differences, 51

Sternisko, A., Cichocka, A., & Van Bavel, J. J. (2020). The dark side of social movements: Social identity, non-conformity, and the lure of conspiracy theories. Current Opinion in Psychology, 35, 1-6.

Swami, V., Coles, R., Stieger, S., Pietschnig, J., Furnham, A., Rehim, S., and Voracek, M. (2011). Conspiracist ideation in Britain and Austria: evidence of a monological belief system and associations between individual psychological differences and real-world and fictitious conspiracy theories. British Journal of Psychology, 102, 443–63.

Swami, V., & Furnham, A. (2014). Political paranoia and conspiracy theories. Power, politics, and paranoia: Why people are suspicious of their leaders, 218.

Swami, V., Voracek, M., Stieger, S., Tran, U. S., & Furnham, A. (2014). Analytic thinking reduces belief in conspiracy theories. Cognition, 133(3), 572-585.

van Prooijen, J. W. (2012). Suspicions of injustice: The sense-making function of belief in conspiracy theories. In E. Kals & J. Maes (Eds.), Justice and conflict: Theoretical and empirical contributions (pp. 121–132). Berlin Heidelberg: Springer-Verlag.

van Prooijen, J. W., & Jostmann, N. B. (2013). Belief in conspiracy theories: The influence of uncertainty and perceived morality. European Journal of Social Psychology, 43(1), 109-115.

IL BLIND-SPOT BIAS

IL BLIND-SPOT BIAS

Gli esseri umani sono soggetti a numerosi bias sistematici nel giudizio, la maggior parte dei quali sono dovuti a processi inconsci. La mancanza di accesso consapevole ai processi che formano il giudizio implica che le persone siano spesso inconsapevoli dei loro stessi bias anche quando riescono a riconoscere i medesimi errori di giudizio negli altri.

Il Blind spot bias è la tendenza, nel valutare giudizi e opinioni, a percepire e a considerare se stessi e i propri ragionamenti come più obiettivi e razionali rispetto a quelli degli altri.

È molto più facile cioè accorgersi dell’esistenza di distorsioni ed errori nel ragionamento altrui piuttosto che nel proprio. La nostra visione del mondo tende infatti ad apparirci come oggettiva, come “la realtà dei fatti” e non soggetta ai bias che vediamo invece agire negli altri. Per questo il Blind-spot bias può essere considerato “il bias di tutti i bias”, il più insidioso: collocandosi infatti a un livello “meta”, ci rende ciechi e non ci permette di “vedere” i nostri stessi errori di giudizio.

Come possiamo “vedere” la nostra zona cieca?

  1. Considerando di essere, come tutti, soggetti a possibili distorsioni del giudizio
  2. Confrontando la nostra visione della realtà con quella degli altri
  3. Mantenendo una posizione aperta di critica e di dubbio
  4. Ponendosi delle domande. Ad esempio:
    • Quali altri punti di vista potrebbero esserci su questa questione?
    • Quali elementi potrei non aver considerato?
    • Se dovessi fare “l’avvocato del diavolo”, che critiche muoverei alla valutazione che sto facendo?

bibliografia

Tversky A., Kahneman D. (1974). Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases, in Science, vol. 185, n. 4157, pp. 1124–1131

Pronin E., Lin D.Y., Ross L. (2002). The Bias Blind Spot: Perceptions of Bias in Self Versus Others. Personality and Social Psychology Bulletin. 28 (3): 369–381

L’EFFETTO BARNUM

L’EFFETTO BARNUM

Nel celebre circo di Barnum ciascuno poteva trovare qualcosa di divertente: i numeri e le attrazioni erano talmente vari che ce n’era davvero per tutti i gusti.

L’effetto Barnum (o di convalida soggettiva o effetto Forer, dal nome dello psicologo che lo definì nel 1948) si verifica quando un soggetto, posto davanti ad una descrizione di personalità che pensa sia a lui riferita, tende a riconoscersi in essa ritenendola ritagliata su di lui, precisa e accurata, senza accorgersi che quel profilo è abbastanza generico da poter riguardare chiunque.

È uno dei motivi per i quali è possibile riconoscersi in quanto predetto da cartomanti/sensitivi, dall’oroscopo o da alcuni pseudo-test.

L’EFFETTO DUNNING-KRUGER

L’EFFETTO DUNNING-KRUGER

L’effetto Dunning-Kruger è una distorsione cognitiva a causa della quale individui poco esperti in un campo tendono a sopravvalutare le proprie abilità, autovalutandosi, a torto, esperti in quel campo mentre, per contro, persone davvero competenti tendono a sottovalutare la propria competenza.

Chi non è esperto commette un errore di valutazione sul proprio conto: sopravvaluta se stesso, non riconoscendo i propri limiti e sottovaluta l’effettiva capacità degli altri proprio perché non ha abbastanza conoscenze per giudicare con precisione chi le possiede e chi no.

D’altra parte, chi è altamente competente è portato a vedere negli altri un grado di conoscenza equivalente al proprio: sopravvaluta gli altri e sottostima se stesso ritenendo ciò che risulta semplice per lui in virtù della propria conoscenza, semplice anche per gli altri.

Nei loro studi, i ricercatori della Cornell University David Dunning e Justin Kruger hanno rappresentato il fenomeno con una curva tipica: sull’asse delle ascisse la conoscenza in un campo, su quella delle ordinate la percezione di quanto conosciuto.

I risultati mostrano che quando si inizia a conoscere una materia si ritiene di sapere tutto, mentre più ci si addentra in un argomento, più si diventa consapevoli di quello che manca per conoscerlo davvero bene.

Come proteggersi da questo rischio?

  • Approfondire l’apprendimento quando ci si sente “esperti”
  • Essere consapevoli dell’esistenza degli errori di valutazione e della possibilità di commetterli
  • Chiedere feedback a persone di comprovata esperienza
  • Coltivare una sana dose di umiltà e di dubbio

Perché può essere così difficile cambiare idea?: il BIAS DI CONFERMA

Perché può essere così difficile cambiare idea?: il BIAS DI CONFERMA

Gli esseri umani sono soggetti a numerosi bias sistematici nel giudizio (Tversky and Kahneman, 1974), la maggior parte dei quali dovuti a processi inconsci. I bias e le euristiche sono scorciatoie di pensiero che hanno il vantaggio di semplificare la complessità della realtà e i processi decisionali, garantendo un utile risparmio di energia psichica attraverso queste strategie inconsapevoli.

Il bias di conferma (confirmatory bias) è un errore cognitivo che porta, nel processo di acquisizione di nuove informazioni, a selezionare e ad attribuire maggiore senso e credibilità a quelle che confermano l’ipotesi di partenza e a ignorare o sminuire quelle che la contraddicono: un pregiudizio che si manifesta nella raccolta dei dati, come una cecità parziale che impedisce di osservare i fenomeni da più punti di vista.

Se, da un lato, tale meccanismo di semplificazione può alleggerire i processi di ragionamento e consentire all’individuo di preservare la propria identità personale garantendogli coerenza, dall’altro, l’esclusivo riferimento alle prospettive che alimentano il suo punto di vista preesistente può allo stesso tempo precludergli la possibilità di cambiare idea.

Come è possibile proteggersi da questo rischio?

  • Considerando e mantenendo la consapevolezza di essere potenzialmente soggetti, come tutti, a questo tipo di distorsioni quando giudichiamo qualcosa e ci formiamo un’opinione/abbiamo una convinzione a riguardo
  • Coltivando il dubbio e il senso critico
  • Ricercando attivamente le condizioni per le quali la nostra tesi non è valida piuttosto che le prove a supporto
  • Ponendosi “buone” domande

L’ARTE DELLE DOMANDE: UNA BUONA RISPOSTA INIZIA CON UNA BUONA DOMANDA!

“Tendiamo a focalizzarci sulla ‘risposta giusta’ piuttosto che sulla scoperta della domanda giusta” (Vogt et alii, 2003:2)

Perchè tendiamo a dare precedenza e a sovrastimare il valore delle risposte rispetto a quello delle domande? Eppure molte delle più grandi scoperte sono iniziate con una bella domanda!

Possiamo fare alcune ipotesi.

La nostra cultura è orientata alla competizione e alla performance. Di fronte a un problema siamo educati a dirigere il nostro sforzo attentivo e di concentrazione sulla ricerca rapida di una soluzione. La risposta socialmente premiata e personalmente più rassicurante è quella semplice, immediata e che non lascia spazio a dubbi e a incertezze. Dentro quell’area grigia del ‘non sapere’ spesso non ci sentiamo comodi perché avvertiamo una forte minaccia: quello che abbiamo imparato e che ci viene ricordato continuamente è che dobbiamo uscire il più velocemente possibile da quella valle sconosciuta e senza certezze per non farvi più ritorno.

All’interno di questa cornice di contesto ci sono poi diversi gradi di sensibilità individuale nel mostrare questa tendenza. La maggiore o minore propensione a tollerare un certo grado di incertezza dipende infatti da come si combinano tra loro gli ingredienti personologici, familiari, situazionali, legati al ruolo (ci si aspetta di solito ad esempio che un manager o un esperto abbia le risposte), può cambiare nel tempo e in relazione agli eventi, essere più evidente in alcuni contesti e meno o niente affatto in altri.

Come ci si muove nell’incertezza? Che strumenti abbiamo?

Una buona domanda può essere una torcia che illumina una stanza buia, una chiave che apre una porta (a volte ne servono diverse prima che si apra!), un sottomarino che va in profondità, un ponte tra i pensieri e tra le persone, tra ciò che conosciamo già e quello che non conosciamo ancora.

Le giuste domande possono motivare, ispirare nuove idee e cambiare la percezione di un problema o di una situazione. Essere consapevoli del tipo di domande che si pongono e dei loro effetti consente di scegliere lo strumento giusto, al momento giusto.

“Se avessi solo un’ora per risolvere un problema, e la mia stessa vita dipendesse dalla soluzione, passerei 55 minuti a capire quale sia la domanda giusta da porsi, perchè una volta scoperta questa potrei risolvere il problema in meno di 5 minuti”

Albert Einstein

LE FORME DELLA COMUNICAZIONE CHE POSSONO AVVELENARE LA COPPIA

Gli studiosi della ‘Pragmatica della comunicazione’ ci hanno insegnato che ogni atto comunicativo contiene sempre due aspetti:
un livello INFORMATIVO, relativo a ciò che diciamo, all’informazione, al contenuto e uno di RELAZIONE: come lo diciamo, con il tono di voce, l’intonazione, l’espressione del viso e del corpo,…
Il modo in cui diciamo qualcosa comunica all’altro come interpretare il nostro messaggio: è una comunicazione sulla comunicazione (una ‘metacomunicazione’).

È la forma a dare senso e significato al contenuto: posso avere diversi tipi di liquido ma se li metto nello stesso contenitore, tutti assumono la stessa forma.
L’effetto emotivo – del contenitore – è di gran lunga prevalente in termini comunicativi rispetto al contenuto.
La stessa parola, pronunciata con un tono e un’espressione diversa, assume significati completamente diversi…

Quello che dico potrà dunque anche essere ‘ragionevole’ ma il modo in cui verrà accolto dall’altra persona – la reazione emotiva che susciterà in lei – sarà coerente con la forma che avrò adottato per comunicarlo.
Ragione ed emozione non vanno sempre d’accordo e di solito è la ragione a soccombere.

Alcune modalità comunicative – non nella loro singola espressione episodica ma se insistenti e ripetute nel tempo – risultano tossiche per la relazione di coppia, finendo per produrre effetti non desiderati e fallimentari, spesso proprio quello opposto rispetto all’intenzione iniziale di risolvere un problema o di migliorare un aspetto della relazione.

Eccone alcune.

1) PUNTUALIZZARE
Come succede spesso, «è la dose che fa il veleno»: cose buone producono effetti cattivi semplicemente a causa del sovradosaggio, proprio come un farmaco somministrato in dosi eccessive si trasforma in veleno.
Nella giusta quantità, puntualizzare i fatti è una modalità di interazione che consente di evitare equivoci o incomprensioni e di sapere cosa davvero sente e pensa l’altro. Ma se diventa ridondante, anche se quanto precisato viene razionalmente riconosciuto come ragionevole dal/dalla partner (sul piano del contenuto), può produrre, sul piano della relazione, reazioni emotive di fastidio e di irritazione e un azzeramento del desiderio.
Sottoporre di continuo ad analisi razionale lo scambio emotivo-affettivo rischia infatti di ridurlo a qualcosa di freddo e distante e di portare nella relazione affettiva un metodo comunicativo proprio del mondo scientifico, basato sui fatti e non sugli aspetti di calore e di coinvolgimento che ne costituiscono il fondamento.

2) RECRIMINARE
Sottoporre continuamente il/la partner a un processo nel quale vengono sottolineate le sue colpe introduce un’atmosfera relazionale che ricorda più la prassi giuridica che una relazione sentimentale. Per quanto possa nascere da un’intenzione legittima di chiarificazione, tende a produrre nell’accusato/a un sentimento sgradevole contro cui s’infrangeranno le nostre ragioni.
Anche in questo caso, la forma della comunicazione e la sua modalità emotiva trasformeranno un messaggio potenzialmente corretto sul piano formale in un atto relazionale che sposta l’attenzione dai contenuti – sui quali si può sempre trovare un accordo – alla sfera emotiva.
Il risultato più probabile non sarà l’accettazione delle nostre ragioni: il sentirsi inquisiti e condannati provocherà reazioni emotive di forte difesa. Il piano della disputa si sposterà dal livello logico – nel quale sono in questione soltanto dei semplici fatti – a un livello relazionale in cui le emozioni in gioco saranno probabilmente il rifiuto e la stizza. Si potrà anche essere convinti, a livello razionale, che il partner abbia ragione quando recrimina, ma al tempo stesso, ci si sentirà spinti sul piano irrazionale a reagire come se si fosse degli innocenti condannati iniquamente.

3) RINFACCIARE
Quella che si rischia di stabilire nel tempo tra chi rinfaccia e chi subisce il rimprovero, è una forma di complementarità patogena della comunicazione che tende a strutturarsi come un vero e proprio copione interpersonale del tipo vittima/aguzzino, all’interno del quale colui/colei che rinfaccia si pone come vittima dell’altro (e da questa posizione tenta di indurre il/la partner a correggere i propri comportamenti) e chi viene colpevolizzato, trovandosi a questo punto nella posizione di aguzzino, tenderà a reagire rifiutando o aggredendo l’altr*, che in questo modo si sentirà ancora più vittima, scatenando un’ulteriore reazione di rifiuto o di aggressione e così via in una disastrosa escalation, un circolo vizioso dal quale, una volta innescato, potrà diventare difficile uscire.

4) PREDICARE
Esaminare e criticare il comportamento dell’altr* sulla base di ciò che è giusto o ingiusto a livello morale provoca spesso un desiderio (anche in chi non ce l’avrebbe) di ribellione e di trasgressione delle regole morali poste a fondamento della predica.

5) “TE L’AVEVO DETTO!”
Tra le forme meno articolate ma ugualmente in grado di provocare con grande probabilità di successo l’irritazione e l’allontanamento del partner poiché altamente evocative di sensazioni di irritazione e di squalifica ci sono le espressioni pronunciate in seguito a qualche accadimento spiacevole del tipo «Te l’avevo detto!»/ «Lo sapevo…»/ «Vedi? Non mi hai voluto dare ascolto».
Alla rabbia e alla frustrazione di aver commesso un errore si somma infatti quella conseguente al fatto che l’altro faccia notare di averlo commesso per non avergli dato retta (ammesso che questo sia vero e non sia solo una sua impressione). Pronunciare queste frasi ci trasformerà probabilmente nel parafulmine della rabbia del/della nostro/a partner, al quale diamo (a volte generosamente) la possibilità di dirottare verso di noi tutta la carica che aveva contro di sé a causa del suo fallimento.

6) “LO FACCIO SOLO PER TE!”
Dichiarare un sacrificio unidirezionale nei confronti dell’altro, se rappresenta una modalità ripetuta nel tempo, lo pone in una posizione di debito e di inferiorità, in quanto «bisognoso» dell’atto altruistico che, se non richiesto, può risultare irritante in quanto causa di una reazione emotiva ambivalente: dovrei ringraziarti per la generosità ma sono in difficoltà in quanto non è stata da me né desiderata né richiesta.

7) “LASCIA… FACCIO IO”
Se, in maniera sistematica, ci si sostituisce all’altro nell’eseguire un compito, l’atto di cortesia e attenzione nei suoi confronti, che a un livello più superficiale di comportamento comunica una buona intenzione, finisce per veicolare, a un livello emotivo più profondo, un sotterraneo messaggio di squalifica che, se reiterato, può diventare nel tempo molto distruttivo: lascia fare a me perché tu non sei capace.

8) IL BIASIMO
Il biasimo è una sequenza di comunicazione che spesso contiene una parte nella quale ci si complimenta con l’altro e una nella quale si afferma che però avrebbe potuto fare di meglio, di più o che ciò che ha fatto non è abbastanza («è bellissimo caro, ma come hai fatto a dimenticare che a me piacciono i girasoli?» / «va bene, però avresti potuto fare di meglio…»). Il biasimo è una modalità di comunicazione potenzialmente molto distruttiva.

Conoscere queste forme del comunicare serve a riconoscerle e a evitarne un uso inconsapevole che nel tempo può risultare dannoso per la salute della relazione.

Bibliografia
P. Watzlawick, J.H. Beavin, Don D. Jackson “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, 1967.
G. Nardone “Correggimi se sbaglio”, Ponte delle Grazie, 2005.
P. Watzlawick “Change; principles of problem formation and problem resolution”, 1974

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